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Vendere online in Cina, i consigli dell'esperto

Essere ben posizionati su Baidu, il principale motore di ricerca cinese, non basta. Per una PMI che vuole entrare nel mercato è necessaria una strategia calata sulle abitudini locali, oltre che presenza fisica, attenzione alla logistica e al customer care. Intervista a Marco Ziero, partner di Moca Interactive

31 Ott 2013

«Un’azienda italiana può fare commercio in Cina anche spendendo poco. Non scoraggiamoci, quindi: questo mercato è aperto ai prodotti anche di Pmi. Però l’azienda ha bisogno di elaborare una strategia ad hoc per la Cina. Deve capire che la visibilità online da quelle parti funziona con regole ben diverse dalle nostre…».

C’è ottimismo e realismo nelle parole di Marco Ziero, partner di Moca Interactive, partner italiano esclusivo del colosso cinese pubblicitario Charm Click, che è “Baidu Authorized Reseller Program in Europe” (Baidu è il principale motore di ricerca in Cina). Da un anno, per altro, Moca è entrata nel network internazionale di agenzie di search marketing Yamondo e quindi da allora ha potuto estendere le proprie attività a Paesi come Cina, Turchia, Russia, Emirati Arabi Uniti.

Ziero sta insomma sviluppando un’esperienza sul fare search marketing in Paesi molto diversi da quelli europei e americani. E la prima cosa che ha capito è che bisogna abbandonare i preconcetti occidentali nell’approcciare questi mondi diversi. Lo stesso dovrebbe fare un’azienda italiana, se è attirata dall’idea di esportare il made in Italy in Cina.

«Una buona notizia è che i consumatori cinesi sono molto interessati ai prodotti italiani. Un’altra è che non è poi così costoso pubblicizzarli su quei mercati. Si parte da un centinaio di euro per una campagna pubblicitaria su Baidu, con software che fanno incontrare domanda e offerta in modo analogo a Google», dice Ziero. «Vendo cellulari e il mio banner può apparire a tutti quelli che cercano cellulari su Baidu: facile. A costi molto accessibili, quindi. Opinione comune è invece che solo mettere il naso in Cina costi un occhio della testa». Quest’opinione è emersa- ed è stata smentita- dal pubblico durante un evento organizzato a Venezia da Moca, quest’estate, sulle opportunità di commercio online che si aprono in Cina per aziende italiane.

«D’altro canto però non facciamoci troppe illusioni. Primo, “un centinaio di euro” è proprio il prezzo di partenza per essere visibili in Cina con i propri prodotti. Secondo, per una Pmi andare su Baidu è utile ma non sufficiente».

L’attenzione al brand

Qui cominciano le particolarità del mercato cinese, da conoscere per pianificare bene l’investimento pubblicitario. L’ha spiegato a quell’evento Lala Hu, ricercatrice del Dipartimento di Management e International Management to Asia Lab presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia: il consumatore cinese è molto legato al brand, il che è segnale di un mercato ancora acerbo per molte categorie di merci. Su Baidu quindi non cerca una categoria di prodotti, ma specifici marchi e modelli direttamente. I più famosi. «Non cerca insomma “borse” ma “Gucci”». E come deve fare un’azienda che non è Gucci a farsi trovare lì? «Già, questa caratteristica del consumatore cinese può essere un problema per una Pmi italiana. Nessuno la cercherebbe con il suo nome su Baidu. Ma c’è una soluzione: costruirsi una visibilità su piattaforme diverse».

Ziero consiglia di esporsi sulle vetrine del commercio online cinese, Alibabà e Taobao (come le nostre eBay e Amazon), perché qui il consumatore tende a navigare per categoria merceologica e quindi può trovare anche marchi italiani non famosi all’estero. Magari attirato da prezzi e design.

Non basta. «Per fare le cose bene, bisogna fare qualche passo in più. Primo, stabilire un punto di appoggio fisico in Cina. Una persona- meglio se cinese- per dialogare con persone in loco. Secondo, occuparsi della logistica -che non è banale da quelle parti- e del customer care (aspetti per cui pure dà assistenza Netcomm, il consorzio del commercio elettronico italiano, Ndr.). Terzo, localizzare il proprio sito».

Quest’ultimo è un aspetto sottovalutato, quando non proprio frainteso, dalle aziende. «Non è sufficiente tradurre in cinese. Tantomeno farlo in inglese. Bisogna sapere che i cinesi hanno modalità di navigazione diversa, vogliono pagine molto lunghe zeppe di link…dobbiamo insomma cambiare la struttura e l’interfaccia del sito», dice Ziero.

La Cina è un orizzonte possibile, per le Pmi del made in Italy. Ma arrivarci richiede un cambio di mentalità.

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